Donato Faruolo è nato a Potenza nel 1985.
Studente di Ingegneria Edile e Architettura, si interessa in modo libero ed indipendente di arti visive. Ha scritto articoli sull’arte e l’architettura contemporanea per il sito di Amnesiac Arts. Ha partecipato con opere fotografiche a diversi concorsi, esposizioni, pubblicazioni: “Frattura Scomposta” (rivista d’arte on line), “Under Urban Mask” (finalista per l’edizione 2006 del concorso indetto dall’associazione State of Art), “L’arte tra il visibile e l’invisibile” (collettiva presso il Museo Provinciale di Potenza), “Sardegna Arte Fiera 2006” (“Fight-Contrasti” per Amnesiac Arts” curata da Barbara Improta e Massimo Lovisco).

 

"Ours is essentially a tragic age, so we refuse to take it tragically. The cataclysm has happened, we are among the ruins, we start to build up new little habitats, to have new little hopes. It is rather hard work: there is now no smooth road into the future: but we go round, or cramble over the obstacles. We've got to live, no matter how many skies have fallen."
(D. H. Lawrence)


L’ASTIGMATISMO ESISTENZIALE
Riflettere sulle cose o riflettersi sulle cose. Una paradossale intervista a Donato Faruolo.

di B.W.

D.F. Ormai ho rinunciato a voler vedere le cose. Non serve più a niente.
B.W. Perché giungere a decretare inutile un rapporto sensoriale diretto con le cose?
D.F. Perché nei nostri tempi bulimici, sazi fino alla nausea di sollecitazioni sensoriali, informazioni e conoscenze, nulla ha più senso: non sappiamo di sapere e non siamo in grado di usare ciò che sappiamo, studiamo integrali e tavola periodica a liceo ma non ne comprendiamo il senso profondo, sappiamo a cosa ci porteranno i nostri stili di vita e regimi politici, ma non muoviamo un solo passo in maniera risolutiva, programmatica, decisiva, per tentare di evitare la catastrofe. La convinzione di essere in grado di trovare un senso a tutto ciò che vediamo è diventata pian piano latente abbandono alla speranza che le cose che vediamo siano in grado già da sole di risolversi nei nostri pensieri. Vedere e basta: un gesto estetico privo di estetica.
B.W. In che modo privarsi della percezione sensoriale si configura come reazione legittima all’interno di questo scenario?
D.F. Probabilmente non è una reazione legittima. E’ solo una reazione umana, tutto qua. Anni fa ho cominciato a credere che l’unico modo per crescere davvero fosse giungere con l’intelletto alla realtà dell’esistenza, e non alla sua opinabilità, decenza, convenienza, correttezza, e che per fare ciò fosse necessario demolire ogni convinzione frutto di pigra accondiscendenza verso se stessi e verso la presunta innocenza di chi o cosa ci fornisse nozioni.
In questo modo alla realtà non sono mai arrivato, ma se non altro conosco un po’ più da vicino la menzogna.
B.W. Come hai deciso che “vedere le cose” non valesse più la pena?
D.F. Non si è trattato di un lucido proposito, né dell’applicazione rigorosa di un imperativo ideologico che portasse alla costruzione di un’alternativa praticabile: un giorno ho smesso semplicemente di preoccuparmi delle prassi di ordinaria manutenzione della vita, relegandole in una parte stagna della mia memoria cellulare, per lasciare tutto il resto dell’attenzione a strani, contorti, ambigui processi di rielaborazione delle percezioni.
Alle volte capita, per esempio, che prenda una porta in faccia per aver stimato superfluo vederla e futile il pensiero dell’aprirla o che abbia lasciato che le mie cornee si corrugassero per distorcere le immagini, così da convincermi in modo suicida e brutalmente carnale della profonda problematicità dei rapporti tra l’intelletto e le cose, fino ad arrivare all’opacizzazione, all’espulsione, al rigetto, con l’atteggiamento di chi sbriga una noiosa pratica burocratica. Ora che non posso più permettermelo, invece, infilo gli occhi nei bicchieri per guardare le cose attraverso il loro fondo, prendo il binocolo per scrutare le valli incise sul palmo della mia mano, guardo il cielo puntando lo sguardo in basso in direzione del suo riflesso sul parabrezza di un’auto, focalizzo le righe di un libro con un occhio o con l’altro e mescolo le due visioni separate, guido in autostrada senza azionare i tergicristalli quando piove…
B.W. Era inevitabile che il tuo occhio finisse anche nel mirino di una macchina fotografica…
D.F. La mia macchina fotografica è un meraviglioso strumento terapeutico, più che artistico, perché probabilmente ha il mio stesso modo di cogliere ciò che è percepibile con gli occhi: è un oggetto idiota che di ciò che vede non sa che farsene, un adorabile sguardo ebete sulle cose ebeti, un sensore incapace di provare ribrezzo né piacere, di avere pregiudizio né giudizio. Allo stesso modo la Fotografia, coscienza alienata dell’idiota strumento, va amorevolmente alla ricerca di una salvezza qualsiasi per ciò che vede: inventa l’artificio della superficie, il gioco al frainteso dell’inquadratura, il retropensiero del finzionario.
B.W. Quali sono i vantaggi del salto nella dimensione “finzionaria” della fotografia?
D.F. Nello spazio riparato dell’inquadratura, la visione si tramuta nel soggetto di una rappresentazione scenica che con il reale non vuole avere nessun rapporto mimetico, ma che proprio per il fatto di non essere invischiata nelle sporche faccende di una pseudo-realtà, può rivelare verità pesanti come macigni con l’animo leggero dell’unico testimone oculare che sa e riferisce, ma che non ha compiuto il delitto.
B.W. E allora, tutta questa realtà che resta sullo sfondo, che pare essere indispensabile e trascurabile al tempo stesso, sembra quasi non avere più ragione di esistere. Perché non dissociarsi e basta? Perché fotografare invece di chiudere semplicemente gli occhi? Qual è il senso della rappresentazione della crisi?
D.F. Tutto sommato, il mondo potrebbe anche non esistere. Ma “non vedere” è il tentativo un po’ disperato di trovare la realtà nel fondo del sentire umano, dove ristagna il senso dolente di questo rapporto spezzato tra creatura e creatore, per riportare a galla tutto il male che l’uomo vuole a se stesso nel tentare di farsi degli sconti sul prezzo della vita: non c’è vera esistenza senza l’instabilità di dubbio, non c’è futuro nella falsità di un appagamento formale. La realtà è ormai un fantasma che aleggia al di là delle cose. La consistenza degli oggetti non ha valore se, presi dalla smania del vivisezionatore analitico, non prendiamo in considerazione il senso che il percettibile acquista nel suo adagiarsi sulle coscienze umane, collettive ed individuali. Delineare una realtà che esiste di per sé è un gioco stanco per teocratici e demagoghi.
E’ nell’assenza stessa dei contorni che si annida la definizione delle cose.

 

Le cose non mi (ri)guardano

Il latente fascino del fastidio

Quindi non

Quando piove

Dimmi che non è vero

Terra d'asilo per sguardi caduti