Sedia 'Nandor' di Ikea
Sedia 'Nandor' di Ikea

Un'illustrazione da 'Essai sur
Un'illustrazione da 'Essai sur
l'Architecture' di Laugier

La Nationalgalerie di Berlino
La Nationalgalerie di Berlino
di Mies Van Der Rohe

Un esempio di design secondo
Un esempio di design secondo
Paolo Cogliati,la sedia'Ciclope'

Banner per Sit in Milano 2006
Banner per Sit in Milano 2006

Esterno del Padiglione Francese
Esterno del Padiglione Francese
alla 10a Mostra Internazionale
d'Architettura di Venezia

Interno del Padiglione Francese
Interno del Padiglione Francese

Assonometria per l'allestimento
Assonometria per l'allestimento
del Padiglione Francese

 






 

 

 

 


 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


24 maggio 2007

DAVIDE VS GOLIA.
La Capanna di Laugier. Ovvero, restringere il campo d’applicazione della legge umana per salvarne la validità.

di Donato Faruolo

Dall’uomo al mondo, dal mondo all’uomo attraverso il progetto.
Come si tenta di sopravvivere alla constatazione di vivere dentro qualcosa che non è se stessi: Modus e Modum, reazione e azione, immanenze e trascendenze, orizzonti, vincoli e deliri vari di onnipotenza.
Il primo di due articoli speculari su Design e Architettura.

Nandor di Mikael Warnhammar è l’equivalente in forma di sedia della capanna primitiva di Laugier: per entrambe, individuati gli obiettivi-problema, l’oggetto-soluzione è sintetizzato in base a semplici combinazioni di ciò che è offerto dall’ambiente di origine, distinguendo ogni parte in base agli specifici rapporti che sussistono tra forma e funzione del componente e caratteristiche dei materiali impiegati. Quella che per Laugier doveva essere “la natura”, per Ikea è l’industria. E se l’industria produce rattan e sbarre di acciaio, basterà lasciare che le sbarre di acciaio semplicemente sagomate assolvano la funzione di sostenere il peso e mantenere la foggia, e che il rattan formi la tessitura delle superfici sulle quali si distribuirà il peso del corpo. Nella capanna di Laugier, allo stesso modo, i semplici tronchi di legno sostenevano il peso del tetto mentre le arti della tessitura fornivano l’edificio di superfici che fungessero da delimitazione tra il qui e l’altrove.
La forma dell’oggetto è la rappresentazione chiara del processo mentale di comprensione smaliziata e di sfruttamento consapevole dell’ambiente e si configura come il manifesto di uno spazio circoscritto dell’onnipotenza umana.
E’ questo l’atteggiamento di Davide con Golia.


Il mondo è un sistema organizzato ed ordinato all’interno del quale è possibile agire solo fruttando la conoscenza che si ha del sistema stesso. Non c’è misticismo o mistificazione che tenga: se l’iniziativa umana sorge dalla necessità di soddisfare un’esigenza ineluttabile, non c’è ragione per cui si debba pensare che l’ingegno umano si possa legittimamente disperdere nel tentativo di soddisfare false istanze che non potranno avere che false risposte. Ciò che non giustifica di per se stesso la propria esistenza, rendendo evidente nello stesso atto del manifestarsi la propria causalità, appena immesso nel sistema-mondo sarà corroso irrimediabilmente dalla vanità dei propri presupposti e sarà espulso dal sistema perché riconosciuto come elemento estraneo.
Se Davide vuole uscirne vivo -e non semplicemente vincitore- farà bene a non prendere in giro se stesso, perché potrebbe non avere l’opportunità di imparare da un suo eventuale errore.
Come in natura non esiste nulla che non sia stato passato sotto la revisione e la verifica della selezione naturale, così il gesto umano non può resistere e non ha ragione di sussistenza senza essere manifestazione ineluttabile ed auto-rappresentativa di causalità.
Davide vince su Golia grazie alla propria capacità di interpretare l’ambiente e farne strumento del proprio intelletto. La sua vittoria celebra se stessa perché è il tipico caso di storia scritta dal vincitore: è un mito umano tramandato con i mezzi della comunicazione umana, una questione di intelletto che rappresenta catarticamente la possibilità dell’intelletto stesso di avere la meglio sulla brutalità della forza.

Non è un caso che “i classicismi” architettonici si siano manifestati con maggior compiutezza in periodi di particolare fiducia nella capacità di fare dell’intelletto umano. Ma se tutti i classicismi preindustriali, quelli sintetizzati da Laugier, erano fondati sull’armonia e coerenza di utilizzazione di un modulo-misura come indizio naturale di un ordine superiore, il senso del classicismo industriale si esprime il più delle volte nel tentativo di armonizzare il processo costruttivo dell’architettura con il processo produttivo dell’industria nell’applicazione coerente di un modulo-oggetto (semilavorati industriali, impianti per la produzione di elementi prefabbricati e componenti standardizzati) che porti alla definizione, ancora una volta, di un canone che è esterno all’architettura stessa. L’architettura, in sostanza, quale prima delle arti pratiche, si realizza nel non sovrapporsi all’ambiente che la genera ma nel configurarsi come parte circoscritta del tutto, ingranaggio della macchina del creato, dell’industria o della società in divenire.

Padre e massimo esponente del “classicismo industriale” dell’architettura è Ludwig Mies Van Der Rohe, che, combinando profilati standard di produzione industriale, reinventa la colonna classica con il suo pilastro a croce e, lasciando in evidenza la testa della trave che si innesta perpendicolarmente sull’architrave, rigenera ex-novo la funzione di un elemento come il triglifo. Null’altro che chiarezza del processo di costruzione e adempimento della funzione: l’architettura ritorna classica, seppur per vie traverse ed in modo quasi inaspettato.
Per resistere alle turbolenze dell’avvicendarsi delle stagioni, l’uomo sceglie lo spazio riparato della razionalità, dove non ci sia più nulla da imputare all’uomo-architetto, battezzato dal peccato originale dell’arbitrarietà del suo agire e consacrato al pragmatismo della reazione vincolata.
Figli, forse illegittimi e sicuramente inaspettati, di queste istanze di moralizzazione dell’architettura, sono le moderne teorie e pratiche di architettura e design bioecologico e le varie esperienze di democratizzazione dell’abitare, tutte pratiche del pensiero architettonico sempre più lontane dalla figura dell’architetto-scultore (realizzatore di opere) e sempre più vicine all’idea dell’architetto-tecnologo (ideatore di soluzioni) di cui Renzo Piano è il massimo esempio.
Queste sono alcune tra le manifestazioni più eclatanti e significative degli ultimi anni.


Paolo Cogliati supera l’idea di un’architettura alla ricerca della sintonia con un’industria fatta di standardizzazione per pezzi che fungano da modulo-oggetto e arriva a disegnare una casa di pannelli lignei progettati al computer e tagliati al laser che per essere montati non necessitino di viti o colle e che, con una serie di pezzi combinati ad incastro in diverse configurazioni, generino ambienti autonomi con arredamenti integrati. Il design, in questo caso, è puro manifesto di architettura “digitale” e responsabile, dove l’incastro (anche vistoso) tra due pezzi diversi ha dignità di permanenza per il fatto di essere irrimediabilmente connesso alla scelta ideologica di versatilità ed ecologia tesa ad evitare prodotti chimici, sprechi o impiego di parti metalliche.


Adriana Labella, a partire da un’unica lastra di legno di dimensioni standard, traccia mediante il disegno digitale le parti di un oggetto tridimensionale da arredamento che possa essere facilmente assemblato e che non generi prodotti di scarto. Se il design tradizionalmente inteso è scelta arbitraria tra una delle infinite possibilità disponibili di risolvere il problema, usare come discrimine il criterio dell’economia e dell’ecologia rende “etico” il prodotto che ha così maggiori possibilità di resistere con forze proprie nel sistema-mondo.


Le performance di design alternativo al SITinMilano del 2006, con la realizzazione delle Cadegre, opere di eco-design ottenute dall’assemblaggio di bancali di risulta, dimostrano come si possa superare addirittura l’idea che il design debba avvalersi e allearsi preventivamente con l’industria, disconoscendone il ruolo “ordinatore” e puntando il dito sui fallimenti di una concezione antiquata del rapporto tra uomo e ambiente, in una specie di regime d’emergenza in cui la questione formale reale non può che essere solo una lettura a posteriori della stessa questione morale di riduzione dell’impatto.


Il padiglione francese per la 10. Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia è invaso da un’architettura iper-democratica in metastasi costituita di pezzi tubolari d’acciaio, giunti fissi e piattaforme da impalcatura. La compostezza classica dell’edificio è attaccata da ponteggi che generano qua e là, nella tridimensionalità dello stanzone, cellule abitabili che penetrano e reinterpretano con la cinica, dirompente ironia della vita ogni spazio esistente e ne creano di nuovi, con cuccette, scale, salotti, cucine, ponti sospesi e torri svettanti sulla laguna fornite di amaca sulla cima. L’estetica dell’architettura coincide con la ragione pratica del proprio esserci. Il progetto si vaporizza nei mille rivoli del divenire: ognuno può agire sul manufatto architettonico perché esso non ha una dignità che sussista al di sopra delle cose e la figura dell’architetto-santone muore annegata nella ficcante accusa di narcisismo onanista mossagli contro dall’irriverenza del vivere reale.


Se non bastasse tutto ciò a configurare l’esperienza giocosa del padiglione francese come la più assurdamente ragionevole tra le proposte in biennale, basterà leggere il titolo dato a questa improbabile macchina da vita e da vivere per comprendere quanto “corrosivo” possa rivelarsi un esperimento simile per la sacralità di molte archistar del momento: “Le pur plaisir d’exister”. Vale a dire, il fatto che l’architetto viva di architettura non è sufficiente a spiegare perché spesso ci si dimentichi che, da parte sua, l’architettura non viva per altro che per essere vissuta.