Chaplin nel film "Tempi Moderni"
Pablo Picasso, "Ho fatto quello che era necessario perché
fossero costretti a vedere un naso".
Lucio Fontana, il Concetto Spaziale, la superficie di una tela è
più significativa quando smette di essere superficie.
Alberto Burri, lasciare che la materia si sfaldi per guardare cosa c'è
oltre
Joseph Kosuth, tutto da un frainteso sulla semiotica, un dubbio in bilico
tra la parola e la realtà.
Ettore Spalletti, due pezzi di nulla male accostati che parlano dell'universalità
Jannis Kounellis, il contrappunto tra gli oggetti caricati delle sovrastrutture
culturali
Dan Flavin, la luce che destabilizza lo spazio
Joseph Beuys, la sevizia degli oggetti e l'energia delle cose resa evidente
perché negata
Phil Sims, un quadro che diventa mille quadri e dove lo sguardo "sbagliato"
è fondamentale
Mario Merz, la serie di Fibonacci al neon sulla materia viva e sulle scansioni
del tempo e delle quantità per generare un corto circuito tra senso
e intelletto
Richard Serra, la naturalità dello squilibrio e l'inesattezza del
mondo
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LA COMMEDIA DRAMMATICA DELL’ERRORE
Lo spazio franco per la sopravvivenza dell’umano.
di Donato Faruolo
L’uomo e la macchina sono gli attori inconsapevoli
ed estenuati di questa “commedia drammatica” dell’errore:
l’uno alle volte si rende colpevole di pensiero senza azione, l’altra
agisce irreprensibilmente senza pensiero. E’ inevitabile che l’incontro
tra i due commedianti porti a qualcosa di significativo...
Charlot è piombato nei Tempi Moderni: lavora tra
ingranaggi e vorticose ruote dentate che si muovono chissà come
e chissà perché, tra cinghie e pulegge che nel procedere
smarriscono senso e coscienza, su un nastro rotante nel quale si ripone
l’incrollabile fede che alla fine si possa giungere a qualcosa di
buono, si tratti di una Campbell’s Soup, o di un Mocio Vileda. Il
compito che gli è stato affidato è quello di avvitare bulloni
in una fase della catena di montaggio e con questa catena è costretto
a sincronizzarsi nei tempi e nei modi, nonché nell’irragionevole
metodologia acritica di lavoro. La macchina gira a ciclo continuo con
un’azione che, assolutamente immune da pensiero critico, è
perfetta ed innocente, e procede senza sbavature colpevoli e senza il
minimo segno di tentennamento. Ma quando le due entità si incontrano
nello spazio di un bullone, Charlot compie l’imprudenza obbligata
di sottostare alla macchina e ne diventa un’appendice: così
basta un nulla che finisca con l’esserne fagocitato.
Il contrasto genera l’errore. E l’errore, più che il
ridicolo, genera la bellezza.
Da Chaplin a Fantozzi, come da Giulio Romano a Zaha Hadid,
o da Monet a Merz, passando per Darwin e Freud, l’errore, inteso
programmaticamente, è diventato fondamentale quale processo di
conoscenza in dissenso con il positivismo di certi metodi cognitivi incuranti
dell’umano più profondo.
Se con il passare del tempo la civiltà delle macchine è
diventata civiltà del terziario avanzato e delle comunicazioni
in genere, è innegabile che dalle macchine si sia ereditato un
certo strumentalismo nel giudizio delle cose, per quella veniale tentazione
dell’uomo di ricercare la bellezza al riparo dal pensiero. Capita
così che nasca una bellezza populista della loquela risuonata dai
pulpiti, dagli schermi e dai trespoli fatta di sillogismi piallati con
l’ammirevole perizia propria di un’associazione a delinquere:
il datore di lavoro diviene “donatore di lavoro” come in uno
sketch della Porcaro, chi vota non seguendo i propri interessi è
un coglione, l’ultraottantenne assolto solo dalla prescrizione può
candidamente candidarsi ad alte cariche dello Stato, il pessimismo del
consumatore è l’unico responsabile dello stallo economico…
per non parlare di chi è con i terroristi perché è
contrario alla guerra e di fuorvianti eroismi e pietismi vari. Capita
inoltre che le cose finiscano con l’essere accadute per un fine
e siano ritenute giuste a posteriori per una causa, che non ci sia volontà
di realismo nel giudicare le cose che sono, come non ci sia traccia di
idealismo nel progettare le cose che saranno.
Il nostro è il pensiero della macchina, perché come l’inerte
e laborioso ingranaggio isolato non riconosce il valore dell’azione
compiuta dagli altri ingranaggi, logicamente e cronologicamente ad esso
precedenti e consecutivi, allo stesso modo la società contemporanea,
grande macchina di ingranaggi, guarda tutto con indifferenza egotistica
e non si chiede il perché delle proprie azioni come se non sapesse
di essere il prodotto della decantazione di qualcosa che esiste oltre
se stessa e di esserne a sua volta causa di stravolgimento.
Se la civiltà della comunicazione distorce la percezione collettiva
della realtà perché è incapace di modificarla realmente,
l’arte del dissenso intacca dall’interno questo non-pensiero
con la “trasversalità” di uno sguardo critico che nella
sua manifestazione preferisce essere errato piuttosto che sterilmente
condivisibile. L’artista che con cognizione di causa e profondità
intellettiva sceglie l’obliquo, lo sbavato, lo strappo, il rifiuto,
il colore colato, l’oggetto decontestualizzato, il gioco del senso
deviato, è un intellettuale che rivendica la sua fallibilità
di uomo e che anzi se ne sente orgoglioso nel momento in cui la perfezione
diventa sinonimo di standardizzazione industriale, lindore della sofisticazione,
accumulo per sovrapproduzione bulimica.
La frammentaria percezione dell’ingranaggio, isolato nella sua incoerente
percezione di individuo, non consente di rivelare l’assurdità
di certe costruzioni retoriche ravvisabili solo in un’ottica più
ampia. Rompere la macchina mediante l’errore produce qualcosa di
assimilabile a quello che per Montale era “lo sbaglio di Natura”,
cioè uno varco libero nell’inestricabilità delle cose
per gettare lo sguardo nel profondo di ciò che riguarda l’uomo.
Spesso, e da oltre un secolo, l’errore nell’opera d’arte
è l’espediente indispensabile a scoprire all’interno
di materiali, oggetti, immagini o idee delle caratteristiche che rappresentino
già da sole un argomento convincente alla demolizione di un pensiero
fittizio. L’artista ha il compito di rivelare la latenza della realtà
al fondo delle cose per mezzo del proprio “errare”, parola
che oltretutto suona allusiva di un viaggio in ciò che si apre
al di là delle Colonne d’Ercole, dove non esistono punti
di riferimento né certezze, ma dove è possibile procedere
senza fiducia e senza fede per rinvenire l’inimmaginabile. Così
l’artista non è colui che scopre, ma colui che ha il coraggio
e la forza di mettere se stesso nella condizione di scoprire, e l’arte
non è l’oggetto della scoperta ma il gesto di rinuncia all’insidia
della certezza. Perchè “se il mondo fosse chiaro, l'arte
non esisterebbe”.
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