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Francesco Maestria
Vita
A cura di Massimo Lovisco
Testo critico di Barbara Improta
21 Gennaio - 26 Febbraio 2006
orario: sab. e dom. 18.30 – 21.00
Quella che Francesco Mestria mette in scena all’AmnesiacArts
è una moderna tragedia in tre atti imperniata sulla dolorosa coscienza
che l’uomo prende del suo posto nel mondo. L’artista lucano
dalle profonde radici magno-greche trasforma la cartapesta, umile materia
della tradizione artigianale locale, in carne dolorante e ci invita a
riflettere sulla crisi dei rapporti umani e sociali nella società
contemporanea.
Testo critico di Barbara Improta
“Suvvia, dormi, / dormi, bimbo: / dorma il mare;
/ l’immensa // sventura dorma.”
Simonide
La prima volta che ho visto delle sculture in cartapesta
è stato a Matera, durante la festa della Madonna della Bruna: un
bizzarro carro colorato affollato di angeli, madonne e cristi dalle espressioni
stupefatte, i gesti enfatici, una favolosa macchina scenica nel teatro
tragico dei Sassi. Ritrovo l’umile e antichissima lavorazione di
cenci macerati nelle sculture di Francesco Mestria, artista della provincia
materana che eredita dalla tradizione artigianale la capacità di
sfruttare a pieno le risorse della materia mettendola istintivamente a
contatto con la luce e lo spazio. Ma nelle tre sculture di Mestria, che
sono il nucleo centrale della mostra, della spettacolare messinscena barocca
è rimasto ben poco, spogliate del colore, delle vesti e dei simboli
cristiani sembrano uscite dalla bottega ancora sbozzate. Resta la loro
attitudine teatrale ma così ridotte all’essenziale ricordano
piuttosto le figure arcaiche e archetipiche delle misteriose civiltà
proto-elleniche che hanno abitato queste terre, antichi eroi ancora senza
nome e senza volto, kouroi contemporanei che incarnano l’idea stessa
d’umanità più che rappresentarla. Nella prima statua,
Life, una madre amorevolmente piegata sul figlio, le forme indistinte,
le linee curve e armoniose che raccordano le due figure, come nelle creature
organiche di Henry Moore rimandano al passato favoloso del mito, prima
della colpa, del formarsi della coscienza, quando la vita era ancora un
fluire continuo e naturale ma ricordano anche la ‘purezza’
contadina dell’era pre-industriale rimpianta da Pasolini. All’improvviso
le creature innocenti si trasformano in muse inquietanti, terribili manichini
di morte, il canto esiodeo vira verso la tragedia disperata di Euripide.
La brusca accelerazione dell’azione ‘srotola’ e spinge
in avanti l’evento drammatico, l’omicidio del bambino (Murder),
ma questa moderna Medea dai tratti appena accennati, i gesti sintetici,
più che una risoluta e feroce assassina sembra un fantoccio che
compie un gesto automatico, vittima anch’essa di un destino imperscrutabile,
agìta da forze superiori, eroina abbandonata dagli dei, sola di
fronte all’assurdo dell’esistenza. Il crescendo drammatico
raggiunge il suo climax nell’ultimo atto, Suicide, in cui l’anti-eroina
precipita nel vuoto, sopraffatta dal dolore della vita e incapace di dare
una risposta alla crisi dei rapporti umani e sociali e al totale sovvertimento
delle leggi naturali del mondo post-industriale. Inconsistente anti-scultura
dal leggerissimo materiale, sagoma ormai esangue dalla bocca nera, spalancata
in un grido d’angoscia, ‘relitto’ della scultura classica,
è l’immagine della condizione dell’uomo moderno, l’Essere
in corsa verso il Nulla.
Muto spettatore della tragedia uno strano totem:assemblando oggetti d’uso
comune alla maniera dei dadaisti, l’artista crea un oggetto nuovo
svincolato da qualsiasi funzione, un emblema. Il bambolotto ‘coperto’
da una busta di plastica trasparente (I bambini nascono con gli occhi
aperti?) incarna la vita come ‘soffocata’ da un involucro,
un carico di sofferenza e di colpa ancestrale, un opprimente condizionamento
che crea una distanza invisibile quanto reale tra noi e il mondo. Questo
suggestivo ready-made ha la stessa funzione del coro nella tragedia, amplia
la prospettiva, dà al dramma visto sulla scena la sua dimensione
metafisica, associa all’azione la sua sostanza morale.
Lo spirito mitico della Magna Grecia, col suo carico di alti ideali e
antichissimi traumi, aleggia in tutta la mostra. Le lamiere-corazze trafitte
e martoriate (Warrior, Warrior I) sono, come gli elmi scuri di Paladino,
i segni di un passato di sangue e violenza più che le vestigia
di un’antica gloria mentre i volti arcaici, dai segni eleganti e
semplificati imprigionati nella pietra, di Aspasia, femminista ante-litteram
nella sessista Grecia classica, e di Danae, dolce figura di mater dolorosa,
indicano alla sensibilità moderna in queste belle figure di donne
piuttosto che nei principi guerrieri l’eredità migliore di
un luminoso passato.
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