Plastico del Museo Ebraico


Finestre del Museo Ebraico


Pilastri


Pilastri



Il corridoio del dolore


Il giardino dell'esilio di Eisenman


Freedom Tower secondo il primo progetto di Libeskind vincitore del concorso


Freedom Tower secondo il progetto definitivo di Libeskind e Childs

 

 






 

 

 

 


 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


30 marzo 2006

COME TI DECOSTRUISCO IL DECOSTRUTTIVISMO
Daniel Libeskind ed il gene recessivo dell’architettura pensante.

di Donato Faruolo

Introduzione. Ad ognuno il suo “Vittorio”.
Se Victor Hugo, in un celebre aforisma, mette sullo stesso piano di conquista civile dell’architettura la costruzione del Partenone e l’abbattimento della Bastiglia, ai nostri giorni possiamo ancora permetterci un Vittorio (questa volta Sgarbi) che paragoni la “Conversione di San Paolo” di Caravaggio al capolavoro mediatico dell’abbattimento delle Twin Towers, intendendo entrambi come capoversi storici dei rispettivi secoli. Ma i tempi cambiano ed il solo gesto dell’abbattere non è più sufficiente se prima non lo si mastica, digerisce e ricompone nella dignitosa forma di teca museale a scopo didattico. Il tutto, possibilmente, in tempo per la secolare scadenza della concessione del suolo di Ground Zero a Larry A. Silverstein e per la prossima candidatura elettorale del governatore dello stato di New York, George Pataki.
Per andare sul sicuro, indetto il concorso e scartate le varie ipotesi di assemblaggio creativo di monconi e scheletri delle torri abbattute (Meier, Holl, Foster, Eisenmann ed altri), si è optato per il progetto di Daniel Libeskind, l’architetto decostruttivista specializzato nel trattare vuoti storici e memorie irrinunciabili.

Riassunto delle puntate precedenti. Come un suicidio salvò l’architettura.
Quando Libeskind partecipò al concorso per la realizzazione del nuovo Museo Ebraico di Berlino, probabilmente nessuno era in grado di capire cosa sarebbe successo di lì a poco: l’architetto polacco naturalizzato americano e reso orfano di madre dalla Shoah, pur non avendo mai messo mano ufficialmente ad un progetto di tale levatura, non solo sbaragliò illustri concorrenti, ma decise di mettere a soqquadro con un colpo d’avanguardia del tutto inaspettato i dogmi per i quali fino ad un attimo prima si legittimava l’esistenza di tutti gli aldorossi e i frankogehry del mondo. La sua opera-manifesto, una linea spezzata tracciata con il minuzioso scrupolo del caso, è un compendio di tutto ciò che l’architettura avrebbe sempre dovuto fare e mai ha avuto il coraggio di essere: dall’obliquo in ponderato dissenso con la legge del perpendicolare, fino al totale astrattismo architettonico in opposizione all’istanza morale che vuole che una finestra, tutt’al più, rappresenti una finestra.
Il punto di forza della sua filosofia progettuale fu l’assoluta mancanza di congetture sulla teoria della progettazione, cosa che gli ha consentito di concepire un’enorme, inservibile macchina scenica capace di materializzare, attraverso il percorso del visitatore al suo interno, tutte le angosce e le paure riguardanti un fantasma storico ancora forte per la Berlino post-muro, ed evitare così meccanismi retorici come l’allegoria, la simbologia e la riproduzione didattica, procedimenti che al loro interno contengono un fondo di falsa risoluzione delle coscienze europee nei confronti della Shoah.
L’azione distruttiva del suo Decostruttivismo è totalmente rivolta ai nessi tra le cose, tra le parti architettoniche, tra le consuete forme quali soluzioni univoche ai consueti problemi. Gli elementi della sintassi architettonica fluttuano liberi all'interno di un brodo primordiale. La ricerca, la tensione esistenziale verso l'organizzazione della vita è resa totalmente libera. Le “entità” dell’architettura, attratte da affinità elettive, non sono semplicemente assemblate, ma tra di esse si inventato segreti e misteriosi dialoghi, si tesse una fittissima rete di rimandi, dipendenze, condizionamenti e riflessi, in modo che l'opera diventi un oggetto frammentario, ma compiuto e monolitico, a volte inquietante, al quale non è possibile aggiungere o sottrarre nessuna parte.
Abbattuto il meccanismo della sommatoria di parti pre-elaborate, le finestre, ad esempio diventano tagli materiali, per nulla concettuali, squarci di vetro che corrono diagonalmente lungo le pareti lacerate, salgono sui soffitti, si incrociano isolando parti piene di muratura che finiscono con il fluttuare sui vuoti. I pilastri sono ambigui aghi di cemento armato che trafiggono all'improvviso una parete e si infilano velocemente in quella di fronte, frecce barocche sul cuore di una novella santa Teresa di cemento, in estasi. Obliqui, si intersecano, si incrociano, non si capisce se spingano o se tirino, se tengano insieme le pareti o le spingano verso l'esterno per non venirne schiacciati.
Ogni componente agisce con l’ambiguità dell’attore: aspira ad interpretare un ruolo che lo redima dal semplice utilitarismo, diventa protagonista e parte di una rappresentazione totale, tanto che l'osservatore (o sarebbe meglio dire lo spettatore) dimentica che tutto quel cemento, in fin dei conti, abbia come unico cruccio quello di scendere a compromessi con la forza di gravità.
L’architettura ne esce polverizzata. Ma se ci sono voluti diciassette secoli per abbattere il dogma dell’armonia architettonica ingenerato da Vitruvio (Perrault), ce ne sono voluti altri tre per insinuare il dubbio su quello della “sintonia” (Wigley, Derrida). E l’architettura finisce finalmente con il vivere di crolli.


Il senso dell’architettura di Libeskind non può essere compreso mediante metodi razionali. La sua opera prende spesso la forma della metafora, cioè sostituisce il classico rapporto mimetico di similitudine dell'architettura con elementi più o meno estranei, con un processo più immediato, più veloce, che rimanda a valori astratti, potenti ed universali. Ne nasce spesso una lettura superficiale di sensazionalismo gratuito. Questa “enfasi” architettonica è spesso associata al tema della tragedia, celebrata, ricordata, o semplicemente materializzata: è successo con la sua prima grande opera, il museo ebraico di Berlino, ed è successo in tanti altri progetti che, nati sulla stessa onda emozionale, lo hanno reso quasi un architetto specializzato sul tema.
Con questi presupposti, non ci sarebbe stato architetto migliore per la progettazione di "qualcosa" sul sito delle Twin Towers collassate nel 2001.
Evitare di far finta di niente, evitare di elaborare per cancellare o archiviare, evitare di colmare i vuoti lasciati dai traumi della storia, è il modo migliore, per Libeskind, di consegnare a quel pezzo di eternità che ci è concesso una testimonianza di reazione consapevole da parte della società contemporanea.
Fare tutto ciò negli Stati Uniti non era cosa facile. Ed infatti non lo si è fatto.
Dopo la strage l'America ha assunto una posizione di orgoglio, non di riflessione, non di reale sgomento. Non era quindi tollerabile né una soluzione di svuotamento, lasciando il sito totalmente inutilizzato in senso pratico, né tanto meno una soluzione di indifferenza, magari con la costruzione di una replica delle torri.
Il Decostruttivismo (quello di Libeskind), fortemente destabilizzante, ambiguo, antagonista per costituzione profonda e non per gratuita ostilità, scende allora a compromessi e dichiara erroneamente la propria incapacità di reagire se non per contrasto. L'America non voleva voltare pagina, piuttosto ha preferito una soluzione di irrigidimento, di intransigenza, di forza, che ha il sapore di un'estenuata manifestazione formale di una società in crisi, che non sa dialogare né contrapporsi con argomenti validi.
Libeskind ha così lasciato il difficile compito di raccontare la tragedia a tagli concettuali e simbolici che troncano trasversalmente le cinque torri minori per uffici e commercio messe in circolo intorno ad un giardino della memoria, oppure allo sbalzo di banale orgoglio di una sesta altissima torre, ancora una volta "la più alta del mondo" con un'altezza di 1776 piedi, numero che rimanda in modo frivolo ed elementare all'anno dell'Indipendenza americana. La “Freedom Tower”, così l’hanno chiamata, nelle sue forme replica in modo spicciolo il gesto della Statua della Libertà, sostituendo il braccio che regge la fiaccola con un'antenna munita di faro a proiezione orizzontale: nessun altro edificio, quindi, potrà mai più superare la quota di questo piano di luce proiettata se non vorrà costringere allo spegnimento quella lampadina alla quale è stato dato il difficile compito di ribadire un sentimento di libertà orgoglioso ed esclusivo.
Cos'hanno in comune tagli concettuali, numeri, simbolismi e rimandi illeggibili se non con metro alla mano, con i tagli materiali e strazianti delle pareti del museo ebraico di Berlino, con il percorso in tensione di un visitatore-viandante gettato in balia della storia vissuta sulla pelle dell'uomo, con il giardino dell'esilio di Eisenman, sede delle angosce e casa dei fantasmi incapaci di riposare, con il vuoto della memoria, pozza di maschere congelate in un rugginoso e tremendo grido muto ed inascoltabile?
Sul sito della tragedia bivaccheranno uffici e ristoranti sospesi, sedi di imprese e correttissime turbine per il risparmio energetico, ardite antenne e giardini dove mangiare il sandwich nella pausa pranzo.
Pareva che qualcosa non andasse bene nel progetto di Libeskind, tante volte contestato e riabilitato, ed infine stravolto e recuperato dal suo vecchio collaboratore, David Childs. Sembrava che l'America non fosse soddisfatta. Sembrava di essere ad una svolta per le sorti della “Nazione” e dell’architettura, l’occasione giusta per l’avvio di un dibattito epocale come accadde per la costruzione del Louvre a metà del Seicento, quando si annunciò definitivamente la morte di Vitruvio e si aprì la strada all’“Architecture Révolutionnaire”.
Invece i dubbi americani, ufficialmente, erano solo una questione di sicurezza, solo una questione di schermo, di riflesso. In realtà lo spazio commemorativo è ormai finito in un ipogeo per lasciare spazio alla speculazione edilizia e le soluzioni progettuali sono sempre più vicine a quelle di un bunker antiatomico: dalle originarie aperture ispirate a portici e loggiati veneziani delle Twin Towers, si è arrivati ad una torre con basamento fortilizio in titanio alto 25 metri.
Dopo le pesanti modifiche, che l'architetto ha accettato a malincuore accontentandosi di spiccioli simbolici come il braccio levato al cielo ed il particolare vezzo dell’altezza, sulle carte la "Freedom Tower" non ha più nulla di decostruttivista, ma nemmeno di realmente significativo.
E, dicono, sarà pronta a svettare entro il 2009. Con le buone o con le cattive.