IARP 1


IARP 2

 




 

 

 

 


 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


9 Agosto2008

Gruppo Cerbero: IARP parte I, II e III

di Luca Giocoli

Il Gruppo Cerbero nasce nel 2005 dall’idea di due artisti partenopei Gerardo Raiola (1980) e Fausto Falchi (1982) e più che essere la somma dei due creatori è un dispositivo che essi usano e gestiscono per mettere in campo le loro azioni/relazioni.

I due artisti, considerati in senso fisico, non sono il Gruppo ma solo una componente di esso. Sono i detentori dei segreti di Cerbero. I due stregoni che danno inizio al rito. Il Gruppo Cerbero, invece, si manifesta solo quando riesce ad instaurare una relazione con il pubblico. Quando il circuito si chiude e si crea una differenza di potenziale, e a chiuderlo e a dare inizio all’azione ci deve pensare proprio il pubblico, il fruitore, l’utente.
Il nome Cerbero sta a significare proprio questo, nella mitologia egli è il cane a tre teste dell’Ade, e questa caratteristica è il perno del gruppo. I due performers sono due delle tre teste del mostruoso essere, mentre la terza è condivisa dal pubblico che partecipa con loro ai riti e che diventa in questo modo parte integrante del Gruppo. Vi è una sorta di comunione d’intenti, ma a gestirli e a dirigerli restano i due artisti. Sacerdoti di contemporanei rituali interattivi, pronti da consumare e portare via, si abbigliano e preparano per l’occasione con dei “paramenti sacri” per propiziare l’efficacia del rito. Durante le performances i volti si fanno seri e concentrati. I gesti lenti e calcolati. L’azione ha inizio e niente deve intralciare il suo sviluppo.
Quello che loro propongono è un avvenimento rapido e spesso efficace. In una società frenetica, un rituale lento e lungo non potrebbe risultare coinvolgente e quindi valido. Oggi tutto è pronto per essere preso e consumato. To take è il verbo cardine. Si prende un’immagine (take a picture), si prende e porta via (take away) si prende una boccata d’aria, e proprio su questo adagio Raiola e Falchi propongono take a shock. Questo è soprattutto ciò che sta dietro a IARP (International Association of the Right Pain).

Con IARP1 il fruitore viene più che altro iniziato all’idea della possibilità che il dolore possa essere ceduto o meglio donato. Invitato a premere un tasto riceve dall’azione che egli stesso attiva una piccola scossa. Prova e quindi dona del dolore. Ovviamente la sua donazione non si perde. Ma viene sommata alle altre e calcolata in unità di dolore. Avvicinato alle attività della IARP è messo sotto test, vagliata la sua ironia e la sua arguzia.

Nel secondo lavoro invece, gia più maturo, la relazione è molto più complicata. IARP2 agisce sulla distribuzione delle responsabilità nel donare e quindi provocare del dolore. L’utente tocca un touch screen. Compie attraverso un’interfaccia un’azione davvero poco usuale. Dona del dolore, e l’effetto di questo atto avviene con forza lì davanti ad i suoi occhi. Uno dei due stregoni provoca male fisico all’altro. Un suono elettronico indica l’inizio dell’operazione che si conclude con un altro suono, un secco e sonoro schiaffo. Non è un’iniziativa spontanea. Il suo gesto è determinato dall’atto dell’utente, il quale però si nasconde dietro lo schermo che ha toccato. Dona del dolore, lo vede fisicamente scorrere, ma sorpassa, anzi bypassa la sua stessa azione. Non può e non vuole concepire di essere lui ad averla provocata, in fondo lui tocca uno schermo. A volte però accade qualcosa di ancora più subdolo. Pian piano si rende conto dell’operazione che ha determinato. Piacevolmente colpito del suo potere, sente di poter delegare i suoi impulsi bassi e meschini superando qualsiasi inibizione. E quasi compiaciuto preme, preme, preme ancora lo schermo.

Con IARP3 l’interazione artista fruitore cambia nuovamente e si compie in maniera molto più orizzontale. In questo caso il pubblico è invitato a condividere del dolore. Viene accolto nell’area liturgica, riservata generalmente solo ai sacerdoti, per prendere parte con maggior consistenza ai sacri misteri. Siamo in vera e propria comunione. Dividere dolore vuol dire farlo diminuire di intensità, ma anche avere una fiducia sconfinata in chi è chiamato a condividere. È facile prendere parte ad un convivio di piacere, ma non lo è come e a chi chiedere di partecipare ad una cosa tanto intima e importante. Solo chi è meritevole può entrare in contatto con qualcosa di così profondo e privato, e c’è in questo qualcosa di sconveniente ma anche di ‘onorevole’. Ci troviamo innanzi, quindi, ad un fine gesto di affetto che unisce solo le persone che sono in confidenza tra loro.
Risulta vera anche l’idea che la possibilità di metterlo in comunione incita una diversa forma di solidarietà, non legata al soccorso ma alla compartecipazione. Sottilmente, poi, l’andare alla ricerca di una piccola com-passione gratuita ci libera e alleggerisce l’animo. Il sentire assieme delle passioni è spesso considerato come catalizzatore di un processo di catarsi e quindi di purificazione, azione che giova al nostro spirito, costantemente alle prese con un indelebile senso di colpa.

www.gruppocerbero.net