I ministri Tremonti ed Alemanno


Lamberto Sposini al TG5


Un'opera di Maurizio Cattelan


Un'opera di Damien Hirst


Un'opera di Jeff Koons


Una scena del film The Ring

 

 

 


 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


4 marzo 2006

LE AVIARIE DELL’ARTE
Trattato semi-idiota sul contrappasso artistico del pollo catodico.

di Donato Faruolo

Prolusione ed indigestione.
Una buona parte dell’arte ufficiale oggi è come il pollo che in questi giorni tutti mangiano in tv.
Quello immolato per una giusta causa alle vegetariane fauci di Rita dalla Chiesa, di Lamberto Sposini o di Maurizio Costanzo e relativa figliolanza catodica, quello incoronato principe del banchetto televisivo ed invitato a (essere) cena in tutti i salotti buoni e i costanzishow del palinsesto.

Pollo e tv. Storia di amori e di coscienze irrisolte.
C’è chi lo mangia al Tg e chi al talk show, chi al varietà domenicale per famiglie e chi al reality show. C’è chi lo mangia in diretta e chi in differita, chi con le posate e chi con le dita. Fatto sta che tutti mangiano pollo in tv, anche chi si dichiara “quasi” vegetariano o chi in realtà non si fida mica ed inventa scuse per defilarsi.
Tutti lo fanno per amore del mercato italiano del pollo.
Paese strano, l’Italia televisiva: sempre presa dalle fesserie dell’inviolabile quaterna (ovvero sport, spettacolo, politica e religione), sempre vogliosa di guardarsi riflessa in quella combinazione di puntini colorati sullo schermo (non ho il plasma, e allora?) per rassicurarsi di coincidere con una fantomatica “Italia reale”, sempre dietro alla bulimia del riprodurre tutto, perché vero è bello, anche se lo dice un bugiardo dichiarato.
Invece, tutto ad un tratto l’Italia televisiva ha un obiettivo: aiutare povere frotte di allevatori spaesati a sconfiggere una psicosi immotivata, ingiustificabile. Tutto ciò dimenticando (ahi, smemorata!) di aver creato dal nulla anche questa baracconata, dicendo ai quattro venti che in Italia sarebbero morte di aviaria 160mila persone prima che morisse anche un solo passerotto nella Corea del Nord…
La televisione ha poche idee e molti polli. Quando qualcuno crede di aver avuto un’idea, anche come questa, triste e miserrima, a tutti prende la frenesia di riprodurre infinite volte lo stesso gesto. Perché alle volte alla tv non manca la libertà, ma la voglia di essere libera.
Come il pollo in tv, l’arte spesso diventa una sola unica chiacchiera dominante da bar dello sport, solo che si fa nei Gran Caffè con servizio ai tavoli, davanti a quei biscotti che sanno di segatura.
Le idee sono due o tre, non di più. L’arte -certa arte- le riproduce in due o tre modi diversi, le perturba corrugandone la pelle sottile che le ricopre esternamente e ne lascia intatto il succo e la polpa, per una strana tendenza a ritenere onesta e artistically correct l’operazione della distorsione dell’immagine per la preservazione di un pensiero vecchio e tranquillizzante. E’ la subdola attività di un censore in incognito, il tentativo ipocrita di sparare sul nemico agonizzante per ricevere una medaglia di guerra che certifichi ora e subito un valore supposto assoluto, ma che si smaterializzerà nel processo inflattivo che colpisce i falsi valori con l’andare dei tempi.
E se è vero che anche Picasso ammetteva l’esistenza di ben pochi soggetti artistici, è vero anche che non c’è artista che abbia meglio dimostrato come il soggetto alle volte non sia che un pretesto e che l’arte sia fatta di una grana fine di sensibilità e di pensiero di difficile reperimento capaci di sentire, vedere e mettere in crisi le più sottili (cioè più grandi) contraddizioni dei tempi.

“Sono la tv: devo farlo!”
Avrà mica preso a cuore la questione perché si sentiva in colpa, la televisione? Credo di no. Memoria corta e guerra fredda tra burattinai di Tg-show lasciano poco spazio agli indici puntati su chi è responsabile. E se la tv vuole, fortissimamente vuole, essere lo specchio Fedelizzato della società, alle volte non si rende conto di non essere il Calibano realista che si incazza con il realismo, ma di essere il poeta in persona. La tv non rappresenta la psicosi, ne è l’artefice.
Fatto sta che mamma Rai e consorelle si prendono cura dei loro figlioli telespettatori, e preso il pollo per le penne (a dir il vero, per la coscia) si sentono in dovere di fare finalmente servizio pubblico. Il pollo in tv, oltre che essere forse l’unico argomento scampato alla par condicio, è eticamente corretto, e quindi ogni caduta di stile (da quell’altezza non si faranno male di sicuro) è giustificata dalla bontà del fine, ormai diventato condanna da espiare.
Come per la tv il mezzobusto con le dita unte di grasso non è peccato perché ha le buone intenzioni di chi deve essere buono, anche l’arte -certa arte- chiede asilo dalla furia del giudizio alla libera terra dei benpensanti, alla ricerca di zone franche sulle quali non passi la bufera del tempo a ricacciare sotto terra le teste degli struzzi che, seppur sopravvissuti all’aviaria, vogliono morire per la vergogna.
L’arte che si definisce utile, concreta, reale e che crede di poter provocare con la crudezza della riproposizione di un’immagine dominante è di per sé un unico enorme clichè.
“Rappresentare la società contemporanea”, espressione cara ai demagoghi, non è un’incombenza dell’arte, perché rappresentare consapevolmente è forse un intento di nessuno, ed è un’esigenza escogitata dai posteri a posteriori e diventata compito del presente per una sorta di medievalista e contemporaneo senso dell’appiattimento del tempo e della storia.
Quando la “rappresentazione” si fa alibi, diventa “pretesto della riproduzione”, ovvero tentativo di tirare su una tautologia del banale per fuggire dall’onere dell’uso della sensibilità e del pensiero critico sulle cose, questi sì realmente soggetti al giudizio del contemporaneo, perché incidono nel vivo della carne del presente e smuovono le acque stagnanti della buona impressione che le cattive coscienze di oggi vogliono fornire alle ebeti coscienze del domani.

Le epiche imprese televisive di un pollo impotente.
Che l’influenza aviaria sia diventata influenza dei polli, e non più anche dei cigni, dei tacchini e dei fringuelli, è una cosa che con un buon margine di certezza non ha inventato il macellaio. Ma sorvolando sulle responsabilità, sulle vittime e sui carnefici, possiamo dire che l’intelligente stratagemma architettato dalle menti catodiche abbia un sapore così squisitamente cabarettistico per il fatto di dover agire in modo profondo sulla reputazione di un pollo ormai condannato ad essere un tabù. Se non d’altro, per lo meno del mercato. Quale mezzo migliore della tv per una cura così radicale di questi morbi collaterali dell’aviaria?
Come l’opulenta, ripetuta, patologica abbuffata catodica di pollo cerca di mascherare, in fin dei conti, un enorme vuoto di progettualità e di responsabilità della televisione, così quella solita certa arte crea e distrugge i suoi miti ed i suoi nemici insistendo in modo pedissequo nell’inquinamento esteriore e superficiale dei soggetti ricorrenti, portandoli in modo artificioso all’estremo del tabù, per ricreare l’immagine dell’illecito da profanare e per poi riaffermarne ancora una volta l’inviolabilità mediante l’azione stessa del negarla.
Esiste una via del nudo, del lercio, dello scabroso, del cattivo, del malato, che in apparenza cerca di negare l’immoralità di questi esempi di indicibile, ma che in realtà per la sua morbosa insistenza sul vuoto che sostiene queste immagini e per il fatto stesso di assurgere tale immoralità a bersaglio di un attacco formale ne sancisce in fin dei conti l’invulnerabilità effettuale.

“L’ha detto la tv”: l’ipse dixit del ciarlatano.
Dire che il pollo non fa male non significa renderlo immune dal pericolo di aviaria.
Dirlo un milione di volte però aiuta. Aiuta la coscienza collettiva italiana, sempre più vincolata alla televisione come unica vera fonte di opinionuncole ad uso e consumo.
E se l’ha detto la tv… buon appetito a tutti.
E se invece lo dice Duchamp… meglio intendere e non ripeterlo, ‘che non ci crederebbe nessuno.

Il triste epilogo di un pollo mangiato dalla tv: “Diceva di amarmi!”
Siamo ormai orfani del senso della storia. Abbiamo lo sguardo innocente di chi può guardare quasi tutto senza averne turbamenti. Sono cadute la Bastiglia, il Muro di Berlino, le Twin Towers, e la statua di Saddam (anche se ha esitato un tantino), tirate giù, insieme a certe convinzioni, non dalla forza di gravità ma da feroci picconate. Anche se col tempo tutto sembra normale.
Senza più nulla che sembri possibile conquistare, siamo nell’epoca in cui i nemici si inventano, si progettano, e poi si combattono: il terrorismo islamico e il pericolo comunista; l’HIV, la mucca pazza, la Sars e l’aviaria; i cinesi e l’euro chetuttoèraddoppiato; il clima chenoncisonolemezzestagioni, Cogne i nuovi terremoti di Lisbona; i PACS, le droghe pesanti, quelle leggere, la fecondazione assistita e gli attentati vari ed eventuali alle “fondamenta dell’umanità”…
L’instabilità spaventa. Procedere sembra sempre più rischioso. E qualcuno ha già pensato ad una soluzione.
Umberto Eco ci fa notare, per esempio, che dall’invenzione del media che si ascolta e si guarda a distanza (la televisione), siamo tornati a riproporre come novità assolute il media che si legge (internet), quello che si guarda ma non a distanza (dvd) e quello che si ascolta (iPod).
La politica italiana, allora, reagisce riproponendo temi, candidati e sistema elettorale vecchi qualche decennio di troppo, oppure creando Oriana Fallaci, Roberto Calderoni e un presidente del senato che scrive un libro con il papa. Oppure uno Zapatero che spara sui clandestini a Ceuta (un pezzo d’Europa strappato all’Africa) e un Cofferati che sgombra dai nomadi Bologna (la buonanima della città rossa).
E l’arte? L’arte ufficializzata non trova di meglio che nascondersi dietro un nuovo buonsenso comune o riproporre idee concettualmente già scadute, o sfatare miti a cui nessuno credeva più da tempo.
Non è il momento per i fiotti d’orgoglio. E se c’è chi sostiene in modo non pretestuoso che sotto il regime dittatoriale crescano gli artisti migliori, ciò non vuol dire che per continuare ad andare avanti sia necessario rialzare barricate ideologiche, forse con la speranza inconscia che torni qualcuno, magari noi stessi, per raderle di nuovo al suolo.
Stiamo assistendo forse alla più grande minestra riscaldata della storia.
Speriamo non sia minestra di pollo. Con i tempi che corrono…


“Andare avanti significa mettere in crisi quello che c’è dietro, sempre.”
Pier Paolo Pasolini, Le Belle Bandiere